giovedì 22 novembre 2007

Marmo

Sulla poesia di Silvia Bre

La nuova raccolta di Silvia Bre si intitola Marmo, il riferimento è a una materia dura, fredda, eppure perfetta nel suo biancore. Una materia che chiama a un confronto intrepido e che rischia in ogni momento di vincere la nostra forza. La lingua è marmo, materiale meraviglioso, da scalpellare duramente, per poi magari accontentarsi di una forma abbozzata, di una figura incompiuta. Il pericolo insito nell’atto dello scolpire la lingua è sempre quello di fallire, di cedere alla sua forza incommensurabile. Nella poesia di Silvia Bre la lingua non è un possesso sicuro, ma un continuo tenersi in contatto con ciò che ci supera in profondità e grandezza. Come se ci fosse un abisso da catturare all’amo o un immenso cielo da contenere e le parole a volte potessero deludere in questa ricognizione. L’autrice vuole tendersi fino toccare il mistero delle cose, “il disegno d’astri” che sta di scorta al nostro andare, ma ammette la possibilità che questo si sottragga al nostro sguardo e che la parola possa arrivare dopo, come la luce di stelle lontane che tardano ad illuminare la terra. Ma la promessa di un senso, suggerita dalle stelle, la fede nella poesia come “suono che tiene unito l’universo” non viene mai meno, non viene meno l’attesa dell’ “onda che sale nelle nostre menti/le stringe insieme in un respiro solo/come fosse per sempre”. Ed è proprio lì che la poesia si vorrebbe accasare, nell’abbraccio stretto alle cose, alla loro promessa d’incanto, che suggerisce la trama di un ordine, di un’unità cui apparteniamo: “mentre le api, i filari dell’uva, il caldo/i ciuffi di basilico, gli sguardi/i quattro girasoli e il pensare, i moscerini, l’aria di menta, tutto/se ne va dritto a sfarsi verso l’alto/noi intanto ci lasciamo stare/sotto l’ulivo più vecchio dell’orto- /corpi, per trattenere quell’incanto”. L’incanto dunque, il senso di stupore, cui solo la parola poetica ci può ricondurre, la parola cioè detta per ringraziare in un’atmosfera di cauta gioia, quando cogliamo in noi un’apertura nei confronti di ciò che esiste: “forse la nostra arte vera/è solo misericordia del pensiero/per tutta la materia/che se ne sta buona dentro di sé/dentro una forma”. La parola è dunque necessaria, anche se insufficiente, è l’aria che respiriamo, il cielo che contempliamo, le stelle nella loro “distanza siderale”, distanza che il poeta si sforza di colmare attraverso il suo volo. L’aquila, il suo doppio, è il vedere impersonale della poesia, capace di raddoppiare i punti di fuoco, di gettare uno sguardo dal una dimensione vasta. Il suo volo concentrico ricorda il movimento della poesia, che coglie il senso per successive approssimazioni, muovendo alla ricerca del suono esatto, della parola adeguata al sentire. “Un moto che ripete e che compone” è quello della scrittura che torna su se stessa per approfondirsi, “senza mirare a nulla che non sia/sé stessa più profondamente”.
Il libro si chiude con un poemetto Sempre perdendosi che sa dire intensamente questa malattia della voce. Sebastiano, figura dell’iconografia sacra, viene qui rappresentato come uomo, semplice voce sempre sul punto di naufragare. La fine della voce, per gran parte del poemetto, viene avvertita come una maledizione, che però non si avvera. La paura del silenzio, fa si che le parole diventino necessarie: “poso parole ignote/nella loro corrente”. E qui il perdersi coincide con un atto pieno di pietà: “mi perdo/per un’arte che raduna/e rallenta ogni gesto in una forma”, il tentativo di riunire ciò che si perde in frammenti, di dare consistenza al pensiero, ripetendo il gesto originario degli antenati di Uruk, che hanno fermato il tempo imprimendo i primi segni nell’argilla.

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