venerdì 17 dicembre 2010

Storie da guardare e da toccare


Sabato 11 dicembre 2010 a Russi (Ra) è stata inagurata la XVI edizione del corcorso
“Libri Mai Mai Visti”: una festa per gli occhi fatta di libri e oggetti ricchi di inventiva e perizia tecnica. La mostra, promossa dall’associazione Vaca, ospita le opere di artisti provenienti da ogni parte d’Italia e da alcuni Paesi stranieri. Io e Carlotta abbiamo partecipato al concorso con la valigia dei racconti: “Kamishibai per una bambina rosa" che ha ricevuto una segnalazione al Merito. La mostra, che si tiene a Russi (Ra), resterà aperta fino al 21 gennaio;
per informazioni sui giorni e orari di apertura visitate il link:

http://www.comune.russi.ra.it/Notizie-in-Primo-Piano/Storie-da-guardare-e-da-toccare

venerdì 3 dicembre 2010














La notte accende i sensi


con pupille di civetta scruta.


In rintocchi di nero


cresce alberi di silenzio.


Non crede alle folle


preferisce la solitudine


lo scricchiolio delle assi


nell'assestarsi del cuore.


La notte, questa sconosciuta,


come un'amica giunta da lontano


preme le dita sul collo


cuce pensieri chiari


sul tessuto del giorno.

Ginnico e celeste: l'arte a manovella di Francesco Bocchini

Francesco Bocchini viene alla luce a Cesena nel 1969. Vive e lavora a S. Angelo di Gatteo, tra Gambettola e Cesena. L’ho incontrato nel suo laboratorio, una vera e propria officina, traboccante di oggetti ordinati con stile e cura. Mi è sembrato di entrare nella bottega di un artista rinascimentale capace di una grande intimità con la materia che lavora. Il suo regno è quello delle lamiere e della latta, che nelle sue mani si trasformano per dare vita a macchine colme di poesia e pensiero. Se a prima vista infatti i suoi macchinari possono sembrare innocui e graziosi giocattoli, a una lettura più attenta rivelano tutta la loro insofferenza per un mondo dominato dalla tecnologia.













Francesco Bocchini, L’ermellino della regina- 2010, cm. 42x62x19 olio su lamiera di ferro, meccanismo a parete

Il tuo laboratorio si trova a Gambettola, la patria dei ferrivecchi. Per realizzare le tue opere utilizzi scarti di lamiera e di latta. Come è avvenuto l’incontro con questo materiale e perché l’hai scelto come tuo fedele compagno?

Non so se sia stata una scelta, essendo nato qui. Devo dire che negli ultimi tempi la situazione a Gambettola è cambiata. Una volta era più facile trovare materiale, c’erano tanti piccoli demolitori che recuperavano le latte dietro casa. Adesso c’è un Consorzio che rende tutto più difficile, nel senso che c’è più controllo. I materiali poi li trovo comunque magari in Danimarca, in Germania. Immagino poi Paesi come la Cina, l’India o i Paesi dell’ex blocco sovietico, lì dev’essere pieno di cartelli pubblicitari della vecchia scuola...saranno bellissimi. Una volta ho trovato un cartello sbiadito, qui da noi, si leggeva una freccia poi una O e una E, sembrava un rebus…molto interessante! Comunque adesso uso soprattutto le capotte delle macchine.

Le macchine che costruisci sono ribelli. Quando giri la manovella compiono movimenti sussultori e sgrammaticati. Non compiono il loro dovere di macchine e cioè servire a uno scopo pratico. Guardandole mi vengono in mente Le macchine inutili di Bruno Munari, marchingegni che paradossalmente non servono a nulla…

Sarebbe un guaio se non ci fossero queste macchine, perché è vero non servono a niente, ma in realtà possono servire a tanto. È il discorso dell’arte. L’arte in sé non serve a niente, ma nel profondo invece è fondamentale. È segno di una conquista da parte dell’uomo, permette di vedere cose che altre discipline, come la scienza, non sono interessate a ricercare. Poter lavorare anche con l’immaginazione…non la trovi una materia così, che ti dice: “lavora con l’immaginazione, vai a trovare qualcosa che non c’è, che non esiste”.













Francesco Bocchini, Un fannullone vestito di rosso - 2010, cm. 10x32x14 olio e stampa su lamiera di ferro, meccanismo a parete

In queste opere c’è anche una parodia, una presa in giro della cosiddetta civiltà delle macchine, cioè del presunto dominio delle macchine sull’uomo?

Beh sì, una volta si vedeva attraverso la macchina l’emancipazione dell’uomo. Si pensava fino agli anni ’60 che la macchina avrebbe fatto il lavoro dell’uomo e l’uomo avrebbe goduto i frutti di questa liberazione. In realtà il grande fallimento è stato proprio questo. Se tu pensi al luddismo, alla fine del ‘700, alla sua lungimiranza. Gli operai manomettevano le macchine per protestare. Le sentivano come una minaccia al valore di quello che facevano e in effetti le macchine provocarono tassi altissimi di disoccupazione e la diminuzione dei salari. Questo è di sicuro un altro aspetto del mio lavoro, un discorso che si apre su temi legati alla società.

Che cosa hai ereditato dello spirito Dada? Che cosa ti parla ancora della loro arte?

Io ho un amore sconfinato per il Dadaismo. Innanzitutto è nato in un modo stupendo. A cominciare dal loro manifesto, la scelta di quella parola, dada, che non doveva significare niente, però poteva avere tanti significati. Allora c’era chi diceva che Dada era la tata, chi invece pensava che nel linguaggio dei bambini fosse il cavallo a dondolo.
L’idea che animava gli artisti era fortissima, perché Dada doveva arrivare fino al paradosso di distruggere se stesso. Non doveva esserci nessun principio dogmatico. Secondo me quello è stato uno degli apici della storia dell’arte e del pensiero in generale. Poi i dadaisti hanno introdotto tanti elementi nuovi all’interno dell’arte. Innanzitutto il fatto di porre l’attenzione verso tutto ciò che non era considerato artistico. Ecco perché si interessavano a tutto ciò che li circondava, dal fatto politico, al fatto di costume, al teatro, alla poesia…cercavano di mettere tutto insieme.

Qual è il ruolo dell’artista oggi secondo te?
L’artista oggi purtroppo ha perso centralità. Una volta scriveva, interveniva nei dibatiiti, prendeva posizione. Adesso è diventato colui che costruisce le sue cose in studio e basta. Non parla, non si confronta con gli altri artisti, non esprime opinioni per paura di scontentare qualcuno.

A proposito di pensiero, mi ha colpito una tua installazione che si intitola La forza del loro pensiero, ce ne puoi parlare?

La forza del loro pensiero è un lavoro sugli anarchici. Su una scaffalatura è disposta una lunga fila di bottiglie. Su ogni bottiglia c’è scritto il nome di un anarchico. Siccome i pensatori anarchici non sono per niente conosciuti - sebbene il loro contributo sia stato decisivo - ho voluto dedicargli questo lavoro. Allora mi piaceva abbinare all’idea della bottiglia, che è un oggetto che si presta alla classificazione, il nome di un anarchico. Come in una parata di fantasmi della storia, l’etichetta stava ad indicare qualcosa di immateriale: i loro pensieri, le loro utopie. Pensa, che a un certo punto l’installazione voleva comprarla la Gancia. Poi quando li ho incontrati, ho detto: “volete metterla in esposizione all’entrata?! Bene son contento, questi son tutti anarchici!”. Non l’hanno più presa. Poi, fortunatamente, l’ha acquistata un collezionista di Milano. Bene, son proprio soddisfatto, che sia andata così!












Francesco Bocchini, La forza del loro pensiero- 2004, ferro, vetro, colori a olio


Breve biografia
Francesco Bocchini è nato a Cesena nel 1969. Vive e lavora a Gambettola (FC). Ha esposto a Roma, Milano, Modena, Vienna, Colonia, Francoforte. Dal 1992 al 1995 lavora con il Teatro Valdoca di Cesena. Nel 1998, durante un lungo periodo in Danimarca, realizza un'installazione per Infinito con due compagnie italo danesi, Rio Rose e Bjorn Theatre. Nel 2001, con la compagnia Deicalciteatro a Bologna, realizza le macchine sceniche per Lombroso-Amleto, Trittico del volto e No ordinary chill.Tra le sue mostre personali ricordiamo Tutti vivi, tutti morti, tutti rivivi, tutti rimorti (2010 - Andrea Arte Contemporanea, Vicenza); Un braccio ruminante ( 2009 - Galleria Il segno, Roma); Gloriette (2007 - Galleria L’Affiche, Milano); Bulgarico (2004- Galleria L’Affiche, Milano).


Intervista in esclusiva per Dada - rivista d'arte per ragazzi

venerdì 26 novembre 2010

Welt-menschen










Enzo Stragapede e Ursula Didra sono una coppia di artisti, che ha cominciato a lavorare nell’industria del tessile come designer d’alta moda e il cui lavoro è sfociato poi nella pittura e nella scultura. Oggi hanno uno studio e una galleria nel centro di Costanza, una graziosa città tedesca ai confini con la Svizzera, dove stanno disseminando le loro sculture allegre e colorate. La loro casa interamente affrescata dalle loro stesse mani richiama flussi di turisti curiosi che provengono da tutto il mondo.

Avete cominciato il vostro percorso artistico nel mondo del design tessile. Come siete passati dal disegnare stoffe per abiti d’alta moda alla pittura e poi alla scultura?
La pittura l`abbiamo praticata sin dall`inizio. Mentre creavamo disegni tessili, vendevamo anche l`arte ai nostri clienti. Infatti il design ha anche il suo lato pittorico.
Con le sculture è stato un processo più lungo; schizzare, disegnare, e dopo la parte tecnica e quella artigianale, ci hanno ispirato e ci hanno portato a confrontarci con materiali diversi, forme diverse e molta sperimentazione.

Negli anni ’80 avete fatto molti viaggi negli Stati Uniti, avete conosciuto artisti molto importanti ci potete raccontare qualche episodio?
Negli anni ‘80 abbiamo fatto molti viaggi negli Stati Uniti, dalla West coast alla Est coast.
Più volte ci siamo incontrati con Keith Haring nel suo garage a New York. Volevamo assolutamente un suo manifesto (Plakat) del 1985. Lui all’inizio non voleva separarsene, ma poi l’abbiamo convinto e ce l’ha venduto, in nome della nostra amicizia, per soli US dollari 50.

Da alcuni anni il vostro lavoro è incentrato sulla figura del Weltmensch. Una silhouette umana invasa di colore, che contiene come una matrioska altri piccoli uomini. In che modo è nata questa idea?
L`idea dei WELT-MENSCHEN (uomini del mondo) è nata grazie alla conoscenza del mondo, che abbiamo maturato durante i nostri viaggi. E poi la nostra vita fa di noi dei Welt- menschen. L’unione tra me Ursula, tedesca, ed Enzo, italiano, ha rafforzanto in noi un sentimento cosmopolita. Poi i tanti viaggi fatti negli Stati Uniti, in Asia e in tutta l’Europa e i tanti contatti con le diverse culture ci fa sentire cittadini del mondo. Questo è il messaggio fondamentale che i WELT-MENSCHEN portano con sé. In queste sculture infatti vivono diversi tipi di persone. Di nazioni diverse e diverse religioni. Donne, uomini e bambini, anziani e giovani, tanti sentimenti e storie.

I Weltmenschen hanno colori vivaci e piacciono molto alla gente, anche ai bambini. Tant’è che si stanno diffondendo come un piccolo popolo colorato a rallegrare le grandi e piccole città della Svizzera e della Germania. Fin dove arriveranno a portare il loro messaggio di fratellanza?
Tramite i loro colori allegri e le loro irradiazioni, con questi Welt-Meschen cerchiamo di avvicinare giovani, anziani e ogni tipo di persona all’arte e all’idea di un incontro pacifico e gioioso tra civiltà diverse. Naturalmente c’è molto dibattito intorno a queste sculture. Infatti in esse sono impliciti pensieri sociali e politici vicini all’attualità.

Voi abitate e lavorate a Costanza, una graziosa città tedesca ai confini con la Svizzera, che si affaccia su un lago. Le sponde del lago di Costanza, attraversa tre Paesi: la Svizzera, la Germania e l’Austria. In che modo questo clima di frontiera ha influenzato il vostro lavoro?
In effetti ci troviamo già geograficamente in un luogo di libertà e senza frontiere. Costanza è una città molto speciale in un attimo ti trovi in Svizzera o in Austria. Attraversare frontiere per noi è un fatto quotidiano, forse per questo ci siamo posti il problema. Inoltre devo dire che la Germania stessa è un Paese molto liberale e aperto al mondo.

Com’è nata l’idea di affrescare la vostra casa? So che è stata un’impresa, avete fatto tutto da soli e ora i turisti che vengono in visita alla città si fermano davanti al vostro uscio per fotografarla…
L`idea di affrescare la nostra casa l’avevamo in testa già da molto tempo. Però abbiamo atteso il momento giusto e quindi l`abbiamo messa in pratica. Vivere e lavorare in questa casa ha fatto crescere radici lunghe. Qui sono nate tante creazioni, anche i , e così volevamo manifestare il nostro messaggio al mondo.



intervista in esclusiva per Dada - rivista d'arte per bambini

lunedì 22 novembre 2010

Il vuoto necessario













Nel bellissimo Cinque meditazioni sulla bellezza, Francois Cheng parla del concetto di vuoto intermedio. Secondo la cosmologia cinese un soffio collega la realtà materiale a quella spirituale. Il soffio, il respiro sarebbe l’unità originaria capace di collegare tutti gli esseri all’interno di un’immensa rete (il Tao). Il ritmo del soffio vive di tre momenti: lo yin la dolce recettività, lo yang la potenza attiva e il vuoto intermedio, lo spazio necessario per l’interazione tra le due forze in campo. Il vuoto è necessario perché le due forze si incontrino, trasformandosi reciprocamente. È il luogo dove il soffio vitale circola e si rigenera. Il vuoto è necessario anche alla bellezza. Perché essa accada, deve occorre un incontro tra la bellezza presente e lo sguardo che la accoglie. Da questo incontro nasce una trasformazione di chi guarda, ma anche di ciò che è guardato. Se un tramonto, le foglie di un acero in autunno, un dipinto non vengono colti da uno sguardo, la bellezza non ha modo di conoscersi. Vive in pura perdita. Vivere in pura perdita mi sembra un pensiero bellissimo.

domenica 21 novembre 2010

L’arte di correre










“Quando corro, semplicemente corro. In teoria nel vuoto. O viceversa, è anche possibile che io corra per raggiungere il vuoto”. Haruki Murakami

Fare arte, stare nell’arte è un po' come correre una maratona, è come rispondere a uno stimolo interiore, silenzioso e preciso, che ci ingiunge di agire nella bellezza. E la ricerca della bellezza richiede un costante allenamento e uno stare in ascolto di energie interiori che si stratificano nel corpo e nello spirito. La pratica del correre può aiutarci a prendere le distanze dal caos e a ristabilire un contatto con le necessità del corpo. A purificare la mente nel corpo. Questo è l’atto che diviene oggetto della performance di Silvia Camporesi nell’ultimo dei suoi lavori intitolato La distanza canonica. Da qualche tempo il rapporto tra corpo e spirito è al centro della ricerca di Silvia, esploratrice attenta e profonda delle riflessioni di pensatori e di pensatrici come Simone Weil, Renè Guenon e Georges Ivanovič Gurdjeff. Con questo terzo atto si conclude un’ideale trilogia sulle campionesse che hanno sfidato i limiti del loro corpo nel nuoto, nelle arti marziali e ora nella corsa. Dopo Dance, dance, dance con la nuotatrice, Secondo vento con la karateka, ora l’artista si confronta in prima persona con la disciplina sportiva della corsa. In Dance dance dance, la prima tappa di questo viaggio, il liquido moto di un corpo femminile avvolto in una stola di seta rossa vive la sfida del respiro. L’apnea. Lo stato di apnea racconta l’incontro con se stessi. Con il proprio incoscio da sempre simboleggiato dall’elemento dell’acqua. La tappa successiva è Secondo vento. Nelle teorie di Gurdjeff il secondo vento è l’energia più forte cui l’essere umano può attingere, quando l’energia fisica è esaurita. Shaira Taha, campionessa europea di karate, esegue parti del kata Unsu (un combattimento simulato da eseguire con grande precisione) all’interno di una cella. Indossa una divisa da carcerato, su cui è impresso un numero palindromo 17971. Al culmine dell’esecuzione, un salto le permetterà di evadere dallo stretto perimetro della cella. Ne La distanza canonica ancora una volta la sfida non ha nulla di agonistico. Non ci sono concorrenti, né la ricerca di una conferma esterna. Al contrario si tratta di una competizione con se stessi. Una maratona, una gara di resistenza per chiarificare lo spirito e portarlo a maturazione. Correre per migliorare la propria tenuta spirituale, per spostare i limiti del corpo, segnare la traccia del nostro passaggio nell’orizzonte vuoto. Silvia attraversa paesaggi, corre nel biancore delle saline, sulle sponde del fiume, tra il verde di fitte boscaglie. Oltrepassa il fumo delle ciminiere, resiste alle asperità del terreno, all’attrito del vento. La sua gonna- medusa respira al ritmo della corsa. Si gonfia e si sgonfia come una membrana sottile, che prolunga idealmente quella dei polmoni sollecitati dalla corsa. Al termine del viaggio di fronte a lei una scala se ne sta sospesa tra terra e cielo, simbolo di un’unione da conquistare.










SIFR La distanza canonica - personale di Silvia Camporesi - a Roma dal 7 dicembre 2010 al 13 gennaio 2011- Z2O Galleria a cura di Valentina Ciarallo


mercoledì 17 novembre 2010

LIBRI MAI MAI VISTI



Qualche giorno fa ho ricevuto questa mail: evviva!

"Gent. Vanessa,

siamo a comunicare con piacere che all'opera "Kamishibai per una bambina rosa" partecipante alla XVI edizione di Libri mai mai visti è stata assegnata una segnalazione al merito.

Ti aspettiamo il giorno 11 dicembre 2010 alle ore 16 presso il Teatro Comunale (Russi, via Cavour, 10) per la cerimonia di premiazione e la consegna del premio.

Saluti e complimenti"

Qui sotto il nostro teatrino uscito dalle sapienti mani dell'amico Piero. Il testo è mio, di Vanessa Sorrentino detta Vanelie, le illustrazioni di Carlotta Costanzi, La Carli.


Storia di una cucina



Monika Wolf è nata ad Essen in Germania e dal 2002 inizia la sua ricerca con l’associazione Arte da mangiare. In effetti verrebbe voglia di mangiarle alcune delle sue opere, capaci come sono di sollecitare tutti i sensi. La sensualità della pittura infatti ospita piccoli innesti di materiali organici come spezie e altre piacevolezze alimentari.
Con la mostra Storia di una cucina (Chiostro dei Glicini / Società Umanitaria / Milano / novembre 2010) Monika Wolf ci accompagna nello spazio più intimo della casa, dove la vita si rinnova e si riproduce grazie al semplice ed ancestrale gesto della preparazione del cibo. Un ambiente abitato tradizionalmente dalle donne, storicamente schiave e, tutto sommato, padrone del focolare domestico. E il fuoco, si sa, era l’elemento attorno al quale si concentrava tutta la casa. La parte per il tutto, il fuoco, il camino - e quindi i più moderni fornelli e cucine a gas – condensano nelle fiabe l’immagine della casa. Ed è proprio Il focolare il titolo dell’installazione composta dai mobili della cucina anni ’40 appartenuti alla madre e da un fornello. E insieme una piccola cucina delle bambole e il lebkuchenherd (fornello giocattolo fatto di dolci), la riproduzione fedele in miniatura dell’universo femminile. Giocattolo destinato anche nei giochi infantili alle future madri, sorelle e mogli che dovranno prendersi cura dei loro cari.
Un destino segnato per generazioni, la cucina, è il luogo dove si consuma una pratica avvolta da un alone magico, quella di preparare e cucinare il cibo. Il cibo è nutrimento che assimilato si fa corpo, e in questo si esprime la sua forza, il suo potere. Un potere tradizionalmente femminile. Come in un’operazione alchemica il cibo viene prima preparato dalle mani delle donne e poi trasformato dal fuoco. In seguito scomposto in molecole dal nostro corpo si fa carne e sangue.
Il processo di ricerca di questa artista si insinua tra le pieghe della propria storia famigliare, perché il cibo è soprattutto memoria. Brevi note a margine delle ricette ritrovate in casa della madre, testimoniano il passaggio di conoscenze da una generazione all’altra, dalla nonna alla madre, dalla madre alla figlia. Una storia matrilineare, frutto della ricerca fatta da Monika su antichi manoscritti tramandati dalla sua famiglia, che vanno dagli anni ’30 ai giorni nostri. Monika riscrive nelle sue tele queste ricette con la mano sinistra, stabilendo così un rapporto diretto con l’inconscio, senza l’interferenza della ragione. Un gesto questo che le permette di entrare in contatto con gli aspetti più profondi della psiche, con la naturalezza e l’istinto. Un ritorno alla madre, alle ricette e ai simboli dell’infanzia. Nell’opera Sorbetto esotico, attraverso 12 tavole di piccolo formato, racconta la preparazione di un sorbetto, gli ingredienti necessari e le fasi di esecuzione. I componenti, zucchero di canna, bucce di lime e semi sono materialmente assemblati alla tela. Ma il connubio fra arte e cibo si fa ancora più stretto negli acquarelli che rappresentano la torta di panpepato, la torta di mele e la torta di Francoforte, tele che ricordano, in chiave molto più delicata e intima, i lavori del grande artista statunitense Wayne Thiebaud.

sabato 13 novembre 2010

Nel paese di Ciccionia

Nel paese di Ciccionia di Vanessa Sorrentino con i ragazzi della Scuola Media Dante Alighieri



Ciccionia è un paese molto speciale. È un paese tutto fatto di ciccia compresi edifici, macchine, montagne e addirittura fiumi. Quando piove, nevica o grandina precipitano palline di ciccia dal cielo.
Gli abitanti del luogo vengono chiamati cicciobesi poiché dimostrano di essere persone grasse e obese. Basta immaginare che al posto degli addominali hanno i lardominali. I pochi magri esistenti nella terra di Ciccionia vengono perseguitati e obbligati ad abbuffarsi per aumentare velocemente il loro peso. Ma ora vorrei descrivervi meglio gli abitanti di Ciccionia. Questi buffi personaggi sono alti più o meno due prosciutti (metro di misura che in Italia corriponde all’incirca a un metro e quindici). Si vestono solo di sfogliatine di pane colorato che ogni tanto mangiucchiano per tenersi in forma. Il loro corpo è simile a una pera con la testa piccola e i fianchi larghi e tondeggianti.
Nei negozi di Ciccionia si vendono solo vestiti e stoviglie extra large. Pentole, piatti e bicchieri sono in misura proporzionata alla grande fame, che da anni assilla la popolazione dei cicciobesi. Solo a Ciccionia si possono gustare nei ristoranti la specialità del luogo: la cicciotagliatella. Un gustoso timballo di tagliatelle farcito di ciccioli freschi.
La scuola come tutti gli altri edifici è costruita in ciccia, i banchi sono foderati di deliziosa mortadella, mentre le aule sono imbiancate di rosso salame; ma la cosa più bella è che la materia di studio principale è basata sull’insegnamento di come abbuffarsi, incamerando la maggior quantità di calorie nel minor tempo. Le altre materie scolastiche molto studiate sono:

1) cicciomatica
2) storia dell’hamburger
3) degustazione di salumi dal mondo
4) religione, dove s’impara ad adorare il dio Strutto!

L’educazione fisica è severamente proibita. Ciò al fine di evitare a priori che qualche ciccioalunno dimagrisca. Qualora si verificasse una simile situazione non immaginate cosa potrebbe succedere!
Le leggi di Ciccionia sono molto diverse da quelle italiane. Per esempio tutti gli anni ogni abitante viene pesato sulla bilancia comunale e chi non supera le 5 tonnellate viene condannato al lardastolo e rinchiuso in prigione a vita. Per i minorenni il peso forma previsto dal codice è di 2 tonnellate. La moneta in vigore sono il cicceuro e i cicciocentesimi.
Il codice della strada non esiste, infatti poiché tutto è fatto di morbida ciccia, qualora avvenisse uno scontro, le cicciomobili rimbalzerebbero una sull’altra allegramente. I ragazzi non usano mezzi di trasporto, ma per viaggiare rotolano su se stessi.
I cicciobesiani festeggiano solo il ciccionatale e la vigilia, giorno in cui si regalano i loro famosi strutto-panettoni. Infine solo una volta all’anno i cicciobesiani partecipano alle Adipeadi, dove l’unica gara organizzata è quella del lancio del lardellotto.


pubblicato su DADA n°19- 2010 "Omaggio a Gianni Rodari" Rivista per bambini - ed. Artebambini

sabato 6 novembre 2010

TESSILE CONTEMPORANEO



TESSILE CONTEMPORANEO
continuità e contaminazioni

FABBRICA Gambettola
6 > 21 novembre 2010
Fabbrica viale Carducci 113 - Gambettola (FC)

La tessitura è una pratica che riconnette con il passato, con un fare dal carattere fortemente femminile. Nell’incontro tra trama e ordito il filo dà forma alla memoria delle donne e al loro ancestrale gesto. Tessere, cucire, rammendare, ricamare sono parole che definiscono un territorio tradizionalmente femminile, che oggi si è esteso come tecnica nell’arte contemporanea. Non più memoria di genere quindi, ma mezzo tecnico, linguaggio, codice. Non bisogna però dimenticare che questo gesto si è imposto grazie alle artiste femministe, alla loro azione coraggiosa e dirompente.
Innovare nel rispetto e nella riconoscenza di una tradizione. Parlare la lingua del tessere vuol dire aprire un dialogo tra trama e ordito, tra tradizione e futuro, tra archetipo e sperimentazione. Il filo del presente intreccia significati e trame nell’ordito del passato. Diviene fioritura di un gesto comune e prezioso, passaggio di sapere di generazione in generazione. Oggi questa pratica si apre a nuovi materiali come il feltro, il silicone, la carta etc. e a nuovi contenuti che rimandano a valori intimi, ma in qualche caso anche a temi sociali ed ambientali.
Le 13 artiste in mostra, ognuna con la sua poetica, si appropriano con riconoscenza di un linguaggio tradizionale per rilanciarlo negli umori del contemporaneo, confrontandosi con lo spazio geometrico di Fabbrica, ex cementificio S.I.C.L.I.

Le sale dalle pareti grigie accolgono il calore di opere realizzate manualmente con materiali che evocano forti sensazioni tattili. Le piccole tele di Yoshiko Noda, la sua voce sussurrata provoca un felice ascolto in chi le guarda. La delicatezza del segno, le cuciture appena abbozzate sulla stoffa esaltano il contrasto con la durezza delle pareti. Piccoli spazi di meditazione che si aprono a un umile gesto di raccolta che si unisce alla purezza orientale delle forme: “sempre vorrei raccogliere le voci bassissime da tutti i luoghi: nel vento, nelle nuvole, nel verde, nel pane, nel riso”. Le fioriture di Kaori Katoh, un omaggio alla bellezza generosa e gratuita del mondo vegetale, colto nel momento più alto dell’espressione di sé: il fiore appunto.




La preziosità inaspettata di un materiale come il silicone, che, lavorato dalle mani sapienti di Iratxe Larrea, artista basca, diventa lucente come madreperla. Piccole medaglie lucidopache, che tessute insieme prendono la forma di tappeti, asciugamani o abiti scultura. Un lavoro che non fa che interrogare il legame affettivo che si instaura tra noi e gli oggetti. E in particolare quegli oggetti di casa che si saldano alla memoria collettiva delle donne. La stanza tutta per sé di Laura Giovannardi, dove la dimensione di gioco dell’infanzia prende corpo in ninnoli, pupazzi e microsculture in feltro come carezze affettuose al bambino che risiede nell’anima di chi guarda.
Bustine di me, il lavoro di Giorgia Manfredini May, che si racconta ironicamente, prendendo le distanze da sé. Frammenti di materiali che ricomposti raccontano la sua storia come fosse istoriata sulla pergamena del presente. Come nel paese delle meraviglie poi qualcuna di queste immagini diventa enorme e una bustina da tè può essere cavalcata per entrare in un mondo incantato e mutevole.




La grande lacrima di Laura Guerinoni, che, appoggiata sul pavimento industriale rivela tutto il suo calore materico. Un intreccio fittissimo di filato grezzo, che rimanda a un mondo organico. Un sequenza rituale di nodi, come un antico scongiuro per scacciare la malinconia di un dolore intrappolato in fondo al cuore. Il dolore è il tema attorno al quale ruota anche l’opera di Tiziana Abretti, dal titolo molto suggestivo: Rompi una costola a una donna e ne ricresceranno dieci. Un’installazione composita dedicata al tema della violenza sulle donne. Una raccolta di testimonianze che fa da contrappunto a un velo calpestato, simbolo di un sogno mortificato. Il pensiero va inevitabilmente al dramma dello stupro e delle molestie sessuali, le quali avvengono nella stragrande maggioranza dei casi tra le mura domestiche.
In tutti questi lavori si rivela una sensibilità per i valori intimi così ben espressi da una materia calda come il feltro, il filo, la stoffa, ma c’è anche un’altra strada tracciata dalle opere in mostra. Quella della realtà sociale e politica del nostro tempo. Come in H.a.a.r.p. 2 di Katia Volpe, che adottando il linguaggio della scultura, modella una colonia di cuccioli di pinguino dai colori sgargianti, innaturali. Pinguini geneticamente modificati per raccontare un mondo che sta pericolosamente manipolando la struttura più intima della natura, il suo dna.
O come nell’Onda anomala di Barbara Matera. Una corsa d’acqua sistemata nella scala d’emergenza della fabbrica, raggelata, ferma come ghiaccio. Un’onda di feltro che racconta le pericolose reazioni della natura ai nostri continui oltraggi. I disastri ambientali che stanno affliggendo il nostro tempo. Dagli effetti risaliamo alle cause con l’opera di Aurelie Chadaine, che narra di un mondo in declino quello dell’alta borghesia finanziaria del nostro tempo. Una tavola apparecchiata narra di una cena d’affari che sta per consumarsi o che si è già consumata sulle tavole del nostro tempo. I bicchieri e i piatti sono di carta, fragili e incerti, come il potere economico che ci governa.

domenica 17 ottobre 2010

Lettera Y ovvero dell'armonia dei contrari



La parola scrivere designava in origine l’atto di graffiare o raschiare una superficie. Graphein in greco significa incidere, rimanda al gesto di imprimere segni sulla pelle di una superficie, siano essi immagini, pittogrammi o lettere di un alfabeto. Un verbo che allude alla vicinanza tra l’atto della scrittura e quello del dipingere.
Come la pittura, anche la scrittura, tesse un dialogo con lo spazio, disseminando i suoi semi verbali nel campo arato della pagina, affinché il senso germogli. Un gesto originario, insomma quello che Giovanni ingaggia nell’incontro con lo spazio pittorico. Un tuffo all’indietro, verso le origini. All’inizio c’è una distesa bianca, immacolata, quella della tela o del foglio di carta, in cui l’artista insinua il colore, con una sensibilità che si potrebbe dire quasi topografica. La superficie pittorica diventa la mappa di un mondo interiore concentrato ed essenziale, solcata da segni dinamici o forme che dischiudono contenuti simbolici.

Nei quadri di Giovanni le campiture di colore, definiscono due territori disgiunti, divisi da un’invisibile linea di confine, che separa due realtà tra loro. Quella linea invisibile racconta la storia di una discordanza che può rivelarsi feconda, se ascoltata. Senza la differenza infatti non potrebbe esistere nulla, sembra dirci questa linea. Non può darsi un alto senza un basso, un femminile senza un maschile, un pieno senza un vuoto. Ad ogni inspirazione segue sempre un’espirazione. La relazione tra gli opposti appare come la condizione indispensabile, affinché le cose possano apparire, venire all’esistenza.
L’opera diviene allora il campo, il terreno di scontro e di confronto, dove le tensioni fra i contrari si manifestano e cercano una sintesi che salvi entrambi. La profondità del dramma si stende sulla superficie, il conflitto viene per un attimo disinnescato per volgere alla ricerca di una realtà ordinatrice superiore, di una coscienza capace di ricomporre nel colore le lacerazioni, i dualismi.

Il senso di equilibrio, l’accordo viene apparentemente conquistato dalla stesura morbida e concentrata del colore, dal rigore geometrico dello sfondo. Zone di rosso squillante, campiture di nero, sorde, zone di bianco luminoso, separate tra loro da cerniere impercettibili intessono tra loro rapporti armonici, suggerendo una vicinanza con la musica – terreno tra l’altro intensamente frequentato da Giovanni. Su questo sfondo, momentaneamente pacificato, prende corpo il segno, dinamico, motorio, graffiato nella carne del colore. Linee nervose, schizzi di forme, cenni di figure, lettere e, a volte, simboli, carichi di energia e di moto fendono lo spazio, caricandolo di vibrazioni inconsce. La loro presenza abbozzata contraddice il rigore degli sfondi. Dalle tracce grafiche come pura energia motoria gradualmente la mano tende a comporre i segni in linee, in figure e infine in forme alfabetiche e simboli.
La lettera Y, che si distacca dall’armonia dello sfondo, sembra alludere al sentimento di una divaricazione che tende all’unità o viceversa al presentimento di un’unità primordiale, da cui si diramano biforcature. Possibilità che si aprono nella vita interiore e biologica degli esseri viventi.

Dalla lettera Y in altri dipinti per gemmazione sboccia la parola play. In inglese play significa suonare, ma anche fingere, recitare. La musica, quindi, da una parte, come a ricordare l’universo immaginato da Pitagora, imbastito su armonie planetarie, che si ordiscono su misure numeriche, simili a quelle acustiche. Ma anche il gioco, forse il suo contrario, ad evocare l’azzardo, l’apparente casualità contenuta in ogni avvenimento che riguardi la vita interiore e dell’universo. Le ramificazioni della vita, che si perpetua in una fatale apertura di possibilità.
Infine negli ultimi lavori affiora la presenza di un archetipo, la cui forma si precisa nel corso del tempo. Appare inizialmente come una fiamma dai contorni indefiniti per giungere nei dipinti più recenti, all’immagine di un frutto conico, molto simile a una pigna. Un simbolo che raccoglie l’esigenza di rappresentare la molteplicità nell’uno.
Il concretarsi di un bisogno di trascendenza, che richiama per la sua forma ovoidale, l’uovo cosmico dipinto da Piero Della Francesca nella Pala d’altare di Brera, emblema della resurrezione e dell’eterno. La pigna, un frutto generoso, capace di chiudere in un abbraccio la molteplicità dei fenomeni, di accogliere i semi delle realtà particolari all’interno di un tutto. Emblema di un desiderio o, forse, di una nostalgia dello spirito, terreno che noi contemporanei rischiamo di consegnare alla censura del materialismo.

Vanessa Sorrentino

Dal Catalogo ‘Continui spostamenti’ di Giovanni Ciucci - Danilo Montanari Editore 2010

domenica 8 agosto 2010

La bambina e il coniglio



La bambina ed il coniglio si guardarono stupiti, erano appena naufragati in un’onda di colore. Dopo essersi scrollati di dosso le ultime goccioline di pittura si studiarono curiosi. La bambina era molto contenta del suo vestito celeste, e quel tocco di rossetto sulle labbra la faceva apparire più grande. Sui suoi capelli era rimasta una striscia di blu elettrico che le donava un’aria da fata turchina. Il coniglio, poi, non poteva desiderare un manto più elegante, bianco come la neve. Le sue orecchie come radar si tendevano per l’emozione, cercava di sentire se fosse in arrivo un altro tsunami di colore. Ma da dove erano arrivati fin qui? A cavallo di un pennello, guidato dalla mano del signor Toccafondo? A dire il vero no, loro prima erano prigionieri di una pagina ingiallita, scolorita dal tempo, che il signor Toccafondo aveva ritrovato in un vecchio libro sonnecchiante in soffitta. Alice in wonderland si chiamava. Alice nel paese delle meraviglie. Una storia di quasi un secolo fa, piena di giochi e trasformazioni. Così, anche lui cominciò a giocare. Non poteva sopportare di veder sbiadire una povera bambina e un coniglio tanto simpatico. È stato così che nel giro di pochi minuti i due si ritrovarono con un vestito nuovo di zecca e una storia da inventare da capo. Tutto merito del signor Toccafondo! Ma chi è- vi chiederete- questo signore dal nome tanto bizzarro?! Si dice sia un caso molto raro di adulto rimasto ragazzo. La sua mente somiglia a una tavolozza piena di colori, nella quale i pensieri nuotano felicemente come pesci nell’acqua di mare. Toccafondo è un artista pescatore innamorato delle sirene. Ogni volta che ne sente il richiamo si tuffa nell’oceano dei colori, per afferrarne il segreto. Da quel tuffo si scatena l’onda che infuria nell’immaginazione e sommerge di colore vecchie foto sbiadite, fotogrammi di film d’altri tempi.

Così era accaduto anche a loro. La bambina e il coniglio sapevano di non trovarsi lì per caso, ma per effetto di una corrente misteriosa che lega i colori alle profondità del mare. L’unica cosa certa è che adesso entrambi si trovavano in mezzo a una distesa color lampone. La bambina provò a leccarla, ma accidenti!, non era di gelato. Forse era un cielo al tramonto! un campo di fiori di malva! o il fondale dipinto di un cartone animato? Dove si trovavano? Non sapevano. Ma era bello così, scoprirlo un po’ per volta.
“Come ti chiami?” chiese la bambina.
“Non posso saperlo, sono appena arrivato. Se vuoi puoi deciderlo tu!” rispose il coniglio.
“Bene, allora ti chiamerai Bianconiglio”, disse “tu puoi chiamarmi Celeste, è il nome che più mi si addice, che ne pensi?”
“Penso, penso che è perfetto!” disse Bianconiglio.
“Ma che cos’hai lì dietro!” esclamò Celeste, puntando il dito dietro la schiena del suo amico.
“È la mia ombra, qualcuno deve avermela disegnata di fresco…” affermò Bianconiglio con orgoglio.
“A che cosa serve?”
“Forse per rinfrescarsi nelle giornate di sole o per riposarsi quando si ha voglia di dormire… deve essere una specie di tana per conigli!”.
Celeste da sempre aveva creduto che l’ombra fosse la sentinella delle persone, la guardiana delle anime che non le fa mai invecchiare. Mentre i due formulavano le loro ipotesi, l’ombra cominciò a vibrare, poi si staccò leggermente dal suolo, finché prese quota e si mise a volare. Bianconiglio la osservava incredulo, mentre si librava in aria come un palloncino. Poi successe una cosa davvero stupefacente: l’ombra si sbriciolò, liberando uno sciame di farfalle nere, una delle quali si posò sulla spalla di Celeste e la trascinò in su verso il cielo. La bambina non credeva ai suoi occhi, visto dall’alto il mondo sembrava un immenso giardino fiorito con steli di lavanda, cascate di fiori di lillà e papaveri dondolati dal vento. Bianconiglio, intanto, rimasto senza la sua ombra, si sciolse al sole e si trasformò prima in un grandissimo innaffiatoio e poi in un campo di margherite. Quando Celeste atterrò nel bel mezzo del campo, colse una margherita e quella si trasformò di nuovo in un coniglio bianco, ma questa volta vestito in modo molto elegante. Giacca e cravattino e un cappello a cilindro in testa; a guardarlo bene era un innaffiatoio rovesciato. Fu così che Celeste e Bianconiglio si ritrovarono. Entrambi avevano capito che l’ombra altro non era che l’anima delle cose che si trasformano di continuo l’una nell’altra proprio come succede nei cartoni animati. E chi, se non il signor Toccafondo, poteva essere l’autore di tutto questo?

Pubblicato su Dada anno IV n°14 aprile-giugno 2009

venerdì 6 agosto 2010

Come carne elementare



Recensione a Serie del ritorno di Stefano Massari – edizione La Vita Felice, Milano, 2009

Che cos’è la morte? È quando qualcuno smette di vivere.
E quando una persona smette di vivere? Quando uno è vecchio oppure è molto malato. (…)
Tutti devono morire? Si.
Veramente tutti? Sì. Tutti devono morire.
Anche tu? Si, anch’io.
Anch’io? Si, anche tu, ma tra molto tempo. Per noi c’è ancora molto tempo.
E nessuno può fare nulla per evitarlo? Deve succedere? Sì, ma tra molto tempo.
Questo è un intenso dialogo tratto da Il nastro bianco, l’ultimo film di Michael Haneke, acclamato quest’anno a Cannes come vincitore. Un dialogo sulla morte e sul tempo tra un bambino e una giovane donna. La scoperta della morte fisica da parte di un bambino, della sua necessità porta con sé tutta la tragicità della condizione umana. Siamo tutti bambini, disorientati e inermi, di fronte a un evento così assoluto e ineluttabile. Queste parole le ho immediatamente associate all’ultimo libro di Stefano Massari La serie del ritorno. Un libro febbrile e crudo che attraversa la morte, la sua attesa, percuotendo le corde del dolore. La serie del ritorno è appunto una serie, tenta di stabilire un ordine, una successione per sconfiggere il caos, l’entropia che la morte porta con sé. I titoli dei nove capitoli, in cui è suddivisa la raccolta, rimandano a un tempo misurato con la precisione degli orologi digitali. Si apre con 00.00, un’ora zero, un inizio che potrebbe essere collocato in qualsiasi momento di ogni esistenza. La serie poi continua in una sorta di time code, una sequenza di cifre temporali che si svolge nell’arco di ventiquattro ore. Una sorta di conto alla rovescia. La scala delle ore scandisce la risalita del tempo verso la fine, ma anche verso un nuovo inizio. Un’iniziazione alla vita che passa attraverso il fuoco, che tutto arde, della morte. Nel viaggio verso una fine annunciata si dispiega infatti la tensione massima alla vita. Come in un paradosso la vita si impenna e grida vicino alla soglia. A chi resta tocca il compito di sincronizzare il tempo interiore alla realtà, allo scivolare del corpo nell’addio (“…sull’asse animale di questo urto incessante addio”). Il corpo e la sua cura sono il centro di quest’avventura tutta umana. Nella danza feroce tra l’essere e il nulla si ustiona la sua carne: “…ogni corpo che nasce è alleanza/ ogni corpo che muore è obbedienza”)
Un libro, quello di Stefano Massari, dove “la parola è tempestosa. Chiede, invoca, comanda, crolla” afferma Milo De Angelis nella prefazione, dove avviene un’apocalisse della carne e si combatte la tentazione del pudore, del non dire. La parola avviene qui secondo un ritmo percussivo dettato dall’urgenza di una tragedia incombente. Un libro-poema, dove il testo si dispone in senso orizzontale, aprendo varchi al bianco degli spazi tipografici, che dettano il ritmo di un respiro spezzato. La poesia qui fa perno sul ritmo, è parola che prende forma nel respiro di un corpo che si fa voce. Voce che entra nella stortura del destino umano sempre in bilico tra l’ insurrezione e l’obbedienza perché “sono l’obbedienza del dolore alleata cieca ai vivi benedetta/ da chi muore senza storia senza cura senza prove”. La parola è pulsazione, in cui si concentra l’urto tra il sentire e la realtà. Qui si narra della lotta e del senso d’abbandono, del cedimento infine alla legge del corpo e della natura: “la morte che dovevi diventare”, “La morte …che ti scavavi tra le gambe lungo l’arteria femorale quando mentire era salvare non avevamo altro”. Si tenta di dare forma al dolore, di cucire la ferita aperta, “tutta la mia paura muta trattenuta nella gola cieca senza cura/ inchiodata al cerchio della perdita”. Si va in cerca della guarigione, di una qualche forma di salvezza, dando spazio al giuramento d’amore: “dovevamo essere interi . tu ricordi?/ Dicevi mangia con me parla con me tienimi aperta lentamente/dammi il tuo gesto pulito il tuo riposo interamente”. Si va in cerca di un ritorno alla vita: “io troppo tardi sento che dovrei tornare/ tornare ancora sento che dovrei soltanto chiedere perdono alla vita”