venerdì 26 novembre 2010

Welt-menschen










Enzo Stragapede e Ursula Didra sono una coppia di artisti, che ha cominciato a lavorare nell’industria del tessile come designer d’alta moda e il cui lavoro è sfociato poi nella pittura e nella scultura. Oggi hanno uno studio e una galleria nel centro di Costanza, una graziosa città tedesca ai confini con la Svizzera, dove stanno disseminando le loro sculture allegre e colorate. La loro casa interamente affrescata dalle loro stesse mani richiama flussi di turisti curiosi che provengono da tutto il mondo.

Avete cominciato il vostro percorso artistico nel mondo del design tessile. Come siete passati dal disegnare stoffe per abiti d’alta moda alla pittura e poi alla scultura?
La pittura l`abbiamo praticata sin dall`inizio. Mentre creavamo disegni tessili, vendevamo anche l`arte ai nostri clienti. Infatti il design ha anche il suo lato pittorico.
Con le sculture è stato un processo più lungo; schizzare, disegnare, e dopo la parte tecnica e quella artigianale, ci hanno ispirato e ci hanno portato a confrontarci con materiali diversi, forme diverse e molta sperimentazione.

Negli anni ’80 avete fatto molti viaggi negli Stati Uniti, avete conosciuto artisti molto importanti ci potete raccontare qualche episodio?
Negli anni ‘80 abbiamo fatto molti viaggi negli Stati Uniti, dalla West coast alla Est coast.
Più volte ci siamo incontrati con Keith Haring nel suo garage a New York. Volevamo assolutamente un suo manifesto (Plakat) del 1985. Lui all’inizio non voleva separarsene, ma poi l’abbiamo convinto e ce l’ha venduto, in nome della nostra amicizia, per soli US dollari 50.

Da alcuni anni il vostro lavoro è incentrato sulla figura del Weltmensch. Una silhouette umana invasa di colore, che contiene come una matrioska altri piccoli uomini. In che modo è nata questa idea?
L`idea dei WELT-MENSCHEN (uomini del mondo) è nata grazie alla conoscenza del mondo, che abbiamo maturato durante i nostri viaggi. E poi la nostra vita fa di noi dei Welt- menschen. L’unione tra me Ursula, tedesca, ed Enzo, italiano, ha rafforzanto in noi un sentimento cosmopolita. Poi i tanti viaggi fatti negli Stati Uniti, in Asia e in tutta l’Europa e i tanti contatti con le diverse culture ci fa sentire cittadini del mondo. Questo è il messaggio fondamentale che i WELT-MENSCHEN portano con sé. In queste sculture infatti vivono diversi tipi di persone. Di nazioni diverse e diverse religioni. Donne, uomini e bambini, anziani e giovani, tanti sentimenti e storie.

I Weltmenschen hanno colori vivaci e piacciono molto alla gente, anche ai bambini. Tant’è che si stanno diffondendo come un piccolo popolo colorato a rallegrare le grandi e piccole città della Svizzera e della Germania. Fin dove arriveranno a portare il loro messaggio di fratellanza?
Tramite i loro colori allegri e le loro irradiazioni, con questi Welt-Meschen cerchiamo di avvicinare giovani, anziani e ogni tipo di persona all’arte e all’idea di un incontro pacifico e gioioso tra civiltà diverse. Naturalmente c’è molto dibattito intorno a queste sculture. Infatti in esse sono impliciti pensieri sociali e politici vicini all’attualità.

Voi abitate e lavorate a Costanza, una graziosa città tedesca ai confini con la Svizzera, che si affaccia su un lago. Le sponde del lago di Costanza, attraversa tre Paesi: la Svizzera, la Germania e l’Austria. In che modo questo clima di frontiera ha influenzato il vostro lavoro?
In effetti ci troviamo già geograficamente in un luogo di libertà e senza frontiere. Costanza è una città molto speciale in un attimo ti trovi in Svizzera o in Austria. Attraversare frontiere per noi è un fatto quotidiano, forse per questo ci siamo posti il problema. Inoltre devo dire che la Germania stessa è un Paese molto liberale e aperto al mondo.

Com’è nata l’idea di affrescare la vostra casa? So che è stata un’impresa, avete fatto tutto da soli e ora i turisti che vengono in visita alla città si fermano davanti al vostro uscio per fotografarla…
L`idea di affrescare la nostra casa l’avevamo in testa già da molto tempo. Però abbiamo atteso il momento giusto e quindi l`abbiamo messa in pratica. Vivere e lavorare in questa casa ha fatto crescere radici lunghe. Qui sono nate tante creazioni, anche i , e così volevamo manifestare il nostro messaggio al mondo.



intervista in esclusiva per Dada - rivista d'arte per bambini

lunedì 22 novembre 2010

Il vuoto necessario













Nel bellissimo Cinque meditazioni sulla bellezza, Francois Cheng parla del concetto di vuoto intermedio. Secondo la cosmologia cinese un soffio collega la realtà materiale a quella spirituale. Il soffio, il respiro sarebbe l’unità originaria capace di collegare tutti gli esseri all’interno di un’immensa rete (il Tao). Il ritmo del soffio vive di tre momenti: lo yin la dolce recettività, lo yang la potenza attiva e il vuoto intermedio, lo spazio necessario per l’interazione tra le due forze in campo. Il vuoto è necessario perché le due forze si incontrino, trasformandosi reciprocamente. È il luogo dove il soffio vitale circola e si rigenera. Il vuoto è necessario anche alla bellezza. Perché essa accada, deve occorre un incontro tra la bellezza presente e lo sguardo che la accoglie. Da questo incontro nasce una trasformazione di chi guarda, ma anche di ciò che è guardato. Se un tramonto, le foglie di un acero in autunno, un dipinto non vengono colti da uno sguardo, la bellezza non ha modo di conoscersi. Vive in pura perdita. Vivere in pura perdita mi sembra un pensiero bellissimo.

domenica 21 novembre 2010

L’arte di correre










“Quando corro, semplicemente corro. In teoria nel vuoto. O viceversa, è anche possibile che io corra per raggiungere il vuoto”. Haruki Murakami

Fare arte, stare nell’arte è un po' come correre una maratona, è come rispondere a uno stimolo interiore, silenzioso e preciso, che ci ingiunge di agire nella bellezza. E la ricerca della bellezza richiede un costante allenamento e uno stare in ascolto di energie interiori che si stratificano nel corpo e nello spirito. La pratica del correre può aiutarci a prendere le distanze dal caos e a ristabilire un contatto con le necessità del corpo. A purificare la mente nel corpo. Questo è l’atto che diviene oggetto della performance di Silvia Camporesi nell’ultimo dei suoi lavori intitolato La distanza canonica. Da qualche tempo il rapporto tra corpo e spirito è al centro della ricerca di Silvia, esploratrice attenta e profonda delle riflessioni di pensatori e di pensatrici come Simone Weil, Renè Guenon e Georges Ivanovič Gurdjeff. Con questo terzo atto si conclude un’ideale trilogia sulle campionesse che hanno sfidato i limiti del loro corpo nel nuoto, nelle arti marziali e ora nella corsa. Dopo Dance, dance, dance con la nuotatrice, Secondo vento con la karateka, ora l’artista si confronta in prima persona con la disciplina sportiva della corsa. In Dance dance dance, la prima tappa di questo viaggio, il liquido moto di un corpo femminile avvolto in una stola di seta rossa vive la sfida del respiro. L’apnea. Lo stato di apnea racconta l’incontro con se stessi. Con il proprio incoscio da sempre simboleggiato dall’elemento dell’acqua. La tappa successiva è Secondo vento. Nelle teorie di Gurdjeff il secondo vento è l’energia più forte cui l’essere umano può attingere, quando l’energia fisica è esaurita. Shaira Taha, campionessa europea di karate, esegue parti del kata Unsu (un combattimento simulato da eseguire con grande precisione) all’interno di una cella. Indossa una divisa da carcerato, su cui è impresso un numero palindromo 17971. Al culmine dell’esecuzione, un salto le permetterà di evadere dallo stretto perimetro della cella. Ne La distanza canonica ancora una volta la sfida non ha nulla di agonistico. Non ci sono concorrenti, né la ricerca di una conferma esterna. Al contrario si tratta di una competizione con se stessi. Una maratona, una gara di resistenza per chiarificare lo spirito e portarlo a maturazione. Correre per migliorare la propria tenuta spirituale, per spostare i limiti del corpo, segnare la traccia del nostro passaggio nell’orizzonte vuoto. Silvia attraversa paesaggi, corre nel biancore delle saline, sulle sponde del fiume, tra il verde di fitte boscaglie. Oltrepassa il fumo delle ciminiere, resiste alle asperità del terreno, all’attrito del vento. La sua gonna- medusa respira al ritmo della corsa. Si gonfia e si sgonfia come una membrana sottile, che prolunga idealmente quella dei polmoni sollecitati dalla corsa. Al termine del viaggio di fronte a lei una scala se ne sta sospesa tra terra e cielo, simbolo di un’unione da conquistare.










SIFR La distanza canonica - personale di Silvia Camporesi - a Roma dal 7 dicembre 2010 al 13 gennaio 2011- Z2O Galleria a cura di Valentina Ciarallo


mercoledì 17 novembre 2010

LIBRI MAI MAI VISTI



Qualche giorno fa ho ricevuto questa mail: evviva!

"Gent. Vanessa,

siamo a comunicare con piacere che all'opera "Kamishibai per una bambina rosa" partecipante alla XVI edizione di Libri mai mai visti è stata assegnata una segnalazione al merito.

Ti aspettiamo il giorno 11 dicembre 2010 alle ore 16 presso il Teatro Comunale (Russi, via Cavour, 10) per la cerimonia di premiazione e la consegna del premio.

Saluti e complimenti"

Qui sotto il nostro teatrino uscito dalle sapienti mani dell'amico Piero. Il testo è mio, di Vanessa Sorrentino detta Vanelie, le illustrazioni di Carlotta Costanzi, La Carli.


Storia di una cucina



Monika Wolf è nata ad Essen in Germania e dal 2002 inizia la sua ricerca con l’associazione Arte da mangiare. In effetti verrebbe voglia di mangiarle alcune delle sue opere, capaci come sono di sollecitare tutti i sensi. La sensualità della pittura infatti ospita piccoli innesti di materiali organici come spezie e altre piacevolezze alimentari.
Con la mostra Storia di una cucina (Chiostro dei Glicini / Società Umanitaria / Milano / novembre 2010) Monika Wolf ci accompagna nello spazio più intimo della casa, dove la vita si rinnova e si riproduce grazie al semplice ed ancestrale gesto della preparazione del cibo. Un ambiente abitato tradizionalmente dalle donne, storicamente schiave e, tutto sommato, padrone del focolare domestico. E il fuoco, si sa, era l’elemento attorno al quale si concentrava tutta la casa. La parte per il tutto, il fuoco, il camino - e quindi i più moderni fornelli e cucine a gas – condensano nelle fiabe l’immagine della casa. Ed è proprio Il focolare il titolo dell’installazione composta dai mobili della cucina anni ’40 appartenuti alla madre e da un fornello. E insieme una piccola cucina delle bambole e il lebkuchenherd (fornello giocattolo fatto di dolci), la riproduzione fedele in miniatura dell’universo femminile. Giocattolo destinato anche nei giochi infantili alle future madri, sorelle e mogli che dovranno prendersi cura dei loro cari.
Un destino segnato per generazioni, la cucina, è il luogo dove si consuma una pratica avvolta da un alone magico, quella di preparare e cucinare il cibo. Il cibo è nutrimento che assimilato si fa corpo, e in questo si esprime la sua forza, il suo potere. Un potere tradizionalmente femminile. Come in un’operazione alchemica il cibo viene prima preparato dalle mani delle donne e poi trasformato dal fuoco. In seguito scomposto in molecole dal nostro corpo si fa carne e sangue.
Il processo di ricerca di questa artista si insinua tra le pieghe della propria storia famigliare, perché il cibo è soprattutto memoria. Brevi note a margine delle ricette ritrovate in casa della madre, testimoniano il passaggio di conoscenze da una generazione all’altra, dalla nonna alla madre, dalla madre alla figlia. Una storia matrilineare, frutto della ricerca fatta da Monika su antichi manoscritti tramandati dalla sua famiglia, che vanno dagli anni ’30 ai giorni nostri. Monika riscrive nelle sue tele queste ricette con la mano sinistra, stabilendo così un rapporto diretto con l’inconscio, senza l’interferenza della ragione. Un gesto questo che le permette di entrare in contatto con gli aspetti più profondi della psiche, con la naturalezza e l’istinto. Un ritorno alla madre, alle ricette e ai simboli dell’infanzia. Nell’opera Sorbetto esotico, attraverso 12 tavole di piccolo formato, racconta la preparazione di un sorbetto, gli ingredienti necessari e le fasi di esecuzione. I componenti, zucchero di canna, bucce di lime e semi sono materialmente assemblati alla tela. Ma il connubio fra arte e cibo si fa ancora più stretto negli acquarelli che rappresentano la torta di panpepato, la torta di mele e la torta di Francoforte, tele che ricordano, in chiave molto più delicata e intima, i lavori del grande artista statunitense Wayne Thiebaud.

sabato 13 novembre 2010

Nel paese di Ciccionia

Nel paese di Ciccionia di Vanessa Sorrentino con i ragazzi della Scuola Media Dante Alighieri



Ciccionia è un paese molto speciale. È un paese tutto fatto di ciccia compresi edifici, macchine, montagne e addirittura fiumi. Quando piove, nevica o grandina precipitano palline di ciccia dal cielo.
Gli abitanti del luogo vengono chiamati cicciobesi poiché dimostrano di essere persone grasse e obese. Basta immaginare che al posto degli addominali hanno i lardominali. I pochi magri esistenti nella terra di Ciccionia vengono perseguitati e obbligati ad abbuffarsi per aumentare velocemente il loro peso. Ma ora vorrei descrivervi meglio gli abitanti di Ciccionia. Questi buffi personaggi sono alti più o meno due prosciutti (metro di misura che in Italia corriponde all’incirca a un metro e quindici). Si vestono solo di sfogliatine di pane colorato che ogni tanto mangiucchiano per tenersi in forma. Il loro corpo è simile a una pera con la testa piccola e i fianchi larghi e tondeggianti.
Nei negozi di Ciccionia si vendono solo vestiti e stoviglie extra large. Pentole, piatti e bicchieri sono in misura proporzionata alla grande fame, che da anni assilla la popolazione dei cicciobesi. Solo a Ciccionia si possono gustare nei ristoranti la specialità del luogo: la cicciotagliatella. Un gustoso timballo di tagliatelle farcito di ciccioli freschi.
La scuola come tutti gli altri edifici è costruita in ciccia, i banchi sono foderati di deliziosa mortadella, mentre le aule sono imbiancate di rosso salame; ma la cosa più bella è che la materia di studio principale è basata sull’insegnamento di come abbuffarsi, incamerando la maggior quantità di calorie nel minor tempo. Le altre materie scolastiche molto studiate sono:

1) cicciomatica
2) storia dell’hamburger
3) degustazione di salumi dal mondo
4) religione, dove s’impara ad adorare il dio Strutto!

L’educazione fisica è severamente proibita. Ciò al fine di evitare a priori che qualche ciccioalunno dimagrisca. Qualora si verificasse una simile situazione non immaginate cosa potrebbe succedere!
Le leggi di Ciccionia sono molto diverse da quelle italiane. Per esempio tutti gli anni ogni abitante viene pesato sulla bilancia comunale e chi non supera le 5 tonnellate viene condannato al lardastolo e rinchiuso in prigione a vita. Per i minorenni il peso forma previsto dal codice è di 2 tonnellate. La moneta in vigore sono il cicceuro e i cicciocentesimi.
Il codice della strada non esiste, infatti poiché tutto è fatto di morbida ciccia, qualora avvenisse uno scontro, le cicciomobili rimbalzerebbero una sull’altra allegramente. I ragazzi non usano mezzi di trasporto, ma per viaggiare rotolano su se stessi.
I cicciobesiani festeggiano solo il ciccionatale e la vigilia, giorno in cui si regalano i loro famosi strutto-panettoni. Infine solo una volta all’anno i cicciobesiani partecipano alle Adipeadi, dove l’unica gara organizzata è quella del lancio del lardellotto.


pubblicato su DADA n°19- 2010 "Omaggio a Gianni Rodari" Rivista per bambini - ed. Artebambini

sabato 6 novembre 2010

TESSILE CONTEMPORANEO



TESSILE CONTEMPORANEO
continuità e contaminazioni

FABBRICA Gambettola
6 > 21 novembre 2010
Fabbrica viale Carducci 113 - Gambettola (FC)

La tessitura è una pratica che riconnette con il passato, con un fare dal carattere fortemente femminile. Nell’incontro tra trama e ordito il filo dà forma alla memoria delle donne e al loro ancestrale gesto. Tessere, cucire, rammendare, ricamare sono parole che definiscono un territorio tradizionalmente femminile, che oggi si è esteso come tecnica nell’arte contemporanea. Non più memoria di genere quindi, ma mezzo tecnico, linguaggio, codice. Non bisogna però dimenticare che questo gesto si è imposto grazie alle artiste femministe, alla loro azione coraggiosa e dirompente.
Innovare nel rispetto e nella riconoscenza di una tradizione. Parlare la lingua del tessere vuol dire aprire un dialogo tra trama e ordito, tra tradizione e futuro, tra archetipo e sperimentazione. Il filo del presente intreccia significati e trame nell’ordito del passato. Diviene fioritura di un gesto comune e prezioso, passaggio di sapere di generazione in generazione. Oggi questa pratica si apre a nuovi materiali come il feltro, il silicone, la carta etc. e a nuovi contenuti che rimandano a valori intimi, ma in qualche caso anche a temi sociali ed ambientali.
Le 13 artiste in mostra, ognuna con la sua poetica, si appropriano con riconoscenza di un linguaggio tradizionale per rilanciarlo negli umori del contemporaneo, confrontandosi con lo spazio geometrico di Fabbrica, ex cementificio S.I.C.L.I.

Le sale dalle pareti grigie accolgono il calore di opere realizzate manualmente con materiali che evocano forti sensazioni tattili. Le piccole tele di Yoshiko Noda, la sua voce sussurrata provoca un felice ascolto in chi le guarda. La delicatezza del segno, le cuciture appena abbozzate sulla stoffa esaltano il contrasto con la durezza delle pareti. Piccoli spazi di meditazione che si aprono a un umile gesto di raccolta che si unisce alla purezza orientale delle forme: “sempre vorrei raccogliere le voci bassissime da tutti i luoghi: nel vento, nelle nuvole, nel verde, nel pane, nel riso”. Le fioriture di Kaori Katoh, un omaggio alla bellezza generosa e gratuita del mondo vegetale, colto nel momento più alto dell’espressione di sé: il fiore appunto.




La preziosità inaspettata di un materiale come il silicone, che, lavorato dalle mani sapienti di Iratxe Larrea, artista basca, diventa lucente come madreperla. Piccole medaglie lucidopache, che tessute insieme prendono la forma di tappeti, asciugamani o abiti scultura. Un lavoro che non fa che interrogare il legame affettivo che si instaura tra noi e gli oggetti. E in particolare quegli oggetti di casa che si saldano alla memoria collettiva delle donne. La stanza tutta per sé di Laura Giovannardi, dove la dimensione di gioco dell’infanzia prende corpo in ninnoli, pupazzi e microsculture in feltro come carezze affettuose al bambino che risiede nell’anima di chi guarda.
Bustine di me, il lavoro di Giorgia Manfredini May, che si racconta ironicamente, prendendo le distanze da sé. Frammenti di materiali che ricomposti raccontano la sua storia come fosse istoriata sulla pergamena del presente. Come nel paese delle meraviglie poi qualcuna di queste immagini diventa enorme e una bustina da tè può essere cavalcata per entrare in un mondo incantato e mutevole.




La grande lacrima di Laura Guerinoni, che, appoggiata sul pavimento industriale rivela tutto il suo calore materico. Un intreccio fittissimo di filato grezzo, che rimanda a un mondo organico. Un sequenza rituale di nodi, come un antico scongiuro per scacciare la malinconia di un dolore intrappolato in fondo al cuore. Il dolore è il tema attorno al quale ruota anche l’opera di Tiziana Abretti, dal titolo molto suggestivo: Rompi una costola a una donna e ne ricresceranno dieci. Un’installazione composita dedicata al tema della violenza sulle donne. Una raccolta di testimonianze che fa da contrappunto a un velo calpestato, simbolo di un sogno mortificato. Il pensiero va inevitabilmente al dramma dello stupro e delle molestie sessuali, le quali avvengono nella stragrande maggioranza dei casi tra le mura domestiche.
In tutti questi lavori si rivela una sensibilità per i valori intimi così ben espressi da una materia calda come il feltro, il filo, la stoffa, ma c’è anche un’altra strada tracciata dalle opere in mostra. Quella della realtà sociale e politica del nostro tempo. Come in H.a.a.r.p. 2 di Katia Volpe, che adottando il linguaggio della scultura, modella una colonia di cuccioli di pinguino dai colori sgargianti, innaturali. Pinguini geneticamente modificati per raccontare un mondo che sta pericolosamente manipolando la struttura più intima della natura, il suo dna.
O come nell’Onda anomala di Barbara Matera. Una corsa d’acqua sistemata nella scala d’emergenza della fabbrica, raggelata, ferma come ghiaccio. Un’onda di feltro che racconta le pericolose reazioni della natura ai nostri continui oltraggi. I disastri ambientali che stanno affliggendo il nostro tempo. Dagli effetti risaliamo alle cause con l’opera di Aurelie Chadaine, che narra di un mondo in declino quello dell’alta borghesia finanziaria del nostro tempo. Una tavola apparecchiata narra di una cena d’affari che sta per consumarsi o che si è già consumata sulle tavole del nostro tempo. I bicchieri e i piatti sono di carta, fragili e incerti, come il potere economico che ci governa.